Recensione di “Madri assassine. Tre letture di Euripide.” di Alessandra Fussi

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A cura di Gianluigi Di Cesare

Vincenzo Marsili (2017). Madri assassine. Tre letture di Euripide. Roma: Edizioni Alpes. Pagine 90. Euro 12,00

Nel bel libro di V. Marsili scorrono due temi. Il primo emerge dalla sua pratica di analista coinvolto nell’analisi di madri che hanno un rapporto gravemente compromesso con i propri figli. Alcune soffrono della sindrome di Munchausen per procura: superficialmente mostrano affettuosità e cura quasi eccessiva per i loro figli, ma agiscono in senso opposto danneggiandone la salute e in certi casi portandoli alla morte. In altri casi le loro tendenze al suicidio fanno tutt’uno con il desiderio che muoiano anche i figli.

Il secondo, quello a cui mi rivolgerò principalmente, è una lettura di tre tragedie di Euripide in cui il tema dell’aggressività della madre nei confronti dei figli viene in primo piano. Si tratta di Alcesti, Medea, e Le Baccanti. Le protagoniste delle ultime due tragedie discusse nel libro, Medea e Agave, uccidono i propri figli: Medea i figlioletti avuti da Giasone, per vendicarsi del suo abbandono, Agave il figlio già grande, Penteo, perché in preda alla possessione dionisiaca lo scambia per un leone.

Alcesti, il primo testo trattato da Marsili, è il più problematico. La trama del dramma è nota: Apollo (per ricambiare la devozione e l’ospitalità di Admeto) ottiene dalle Moire di far morire qualcun altro al posto di Admeto. Ovviamente è difficile trovare qualcuno disposto a farlo, tant’è che i genitori, pur anziani, si rifiutano di sostituirsi al figlio. La persona che accetta di morire è la giovane moglie Alcesti. Ma Apollo coinvolge anche Eracle, che passa dalla reggia di Ferete proprio nel giorno dei funerali di Alcesti e lo convince ad andare nell’Ade per strappare Alcesti alla morte. Quando la riporta alla reggia, le mette un velo e la presenta come una schiava che ha vinto a un torneo, chiedendo ad Admeto di custodirla alla reggia.

La problematicità deriva dal fatto che il personaggio principale, la donna che accetta di morire al posto del marito, non uccide i figli, anzi, nelle ultime scene, ormai morente, rivolge loro parole struggenti e affettuose. Sembrerebbe dunque improprio pensare ad Alcesti con la categoria del titolo, madri assassine, ma Marsili guarda alla tragedia dal punto di vista della totale negazione di sé della protagonista che, accettando di morire al posto del marito, in un certo senso uccide anche i propri figli (vissuti come parte non distinta da sé).

Il capitolo su Alcesti è molto interessante non tanto o non solo per la tesi sopra citata, quanto per il tema correlato del rapporto fra la vita e la morte, la singolarità e la specie. Centrale mi pare l’interpretazione dell’onni­po­ten­za che si nasconde nella proposta del morire al posto di un altro e che emerge dalla lettura del testo euripideo dell’autore. Marsili evidenzia in particolare la tesi paradossale utilizzata da Apollo per convincere Thanatos: «In fondo si tratta sempre di una vita, chiunque ti pigli» (p. 23), tesi questa, che presuppone l’irrilevanza dell’identità personale. Se uno vale l’altro, Alcesti può scambiarsi col marito senza problemi. Non a caso, tornata dall’A­de, assumerà le sembianze della schiava, cioè di qualcuno la cui identità e volontà sono negate, subordinate al marito-padrone di cui emerge, nell’ana­li­si di Marsili, tutta la grettezza. Egli si esprime in «frasi paradossali e false», come quando, di fronte alla moglie morente, «le fa forza» e, commenta Marsili, «sembra quasi che abbia paura di un suo ripensamento» (p. 24).

Lo squallore morale di Admeto viene smascherato dal padre Ferete, che «travolge le dissimulazioni del figlio riguardo all’onore, al coraggio, al sacrificio, agli affetti e i legami parentali» (p. 26). «Ti piace vivere. Credi che a tuo padre non piaccia? E accusi me di viltà, tu un codardo vinto da una donna che è crepata per la tua bella faccia? Hai trovato un modo brillante per scamparla sempre, se riuscirai ogni volta a persuadere la moglie che trovi a prendere il tuo posto […]. Se tu ami l’e­si­stenza, anche tutti gli altri la amano […]. Abbiamo avuto in sorte un’esi­sten­za sola, non due» (p. 26).

Un punto molto interessante della discussione di Marsili è il tema del linguaggio sofistico. Euripide era stato discepolo di Protagora (L’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono come sono, di quelle che non sono come non sono (DK 80 B 1)), e ne aveva assunto le tesi relativistiche. Ma della sofistica aveva anche ripreso l’uso antilogico del linguaggio, che si esprimeva in modo particolare nell’eristica: una specie di retorica in cui la disputa si svolgeva attraverso rigide opposizioni dialettiche volte non tanto a scoprire qualcosa di vero, quanto a far prevalere la propria tesi, indipendentemente dal suo contenuto di verità.

Nel caso dei personaggi euripidei esaminati da Marsili si può dire che la presa che manca al linguaggio sia la capacità di cogliere il mondo interiore altrui. Nessuno dei personaggi coglie i motivi profondi dell’altro, né è in grado di rappresentare fino in fondo il proprio mondo interiore. A episodici momenti di debolezza (come quando Medea manifesta una grande tenerezza per i figli) si contrappone la difesa di un sé grandioso, invulnerabile e spietato. L’interpretazione di Marsili è particolarmente interessante nello scontro tutto razionale fra Medea e Giasone, che si rimbalzano accuse senza che Giasone capisca il dolore di Medea e il significato che ha per lei l’abbandono, e senza che Medea rappresenti neppure a se stessa questo dolore. Medea non parla di un proprio dolore, ma della giusta vendetta per l’offesa subita. Non invoca Giasone rievocando l’amore che li ha legati, ma accusandolo di non rispettare patti non tanto con una donna, bensì con una discendenza divina. Offendendo Medea Giasone offende il Dio Elio da cui Medea discende, e cioè il sole.

Che senso ha in questo quadro l’uccisione dei figli?

Per Marsili: «con questa azione Medea realizza due obiettivi: colpisce il marito ed elimina se stessa, o meglio una parte di sé, quella di cui si vergogna, quella presa in giro per il tradimento subito. In questa parte di sé i figli non vengono distinti da sé, essi sono lei stessa» (p. 32).

Dunque uccidere i figli significa colpire Giasone ma, osserva l’autore, questo scopo non parrebbe primario poiché Giasone sembra nutrire scarso interesse per loro. L’azione sembrerebbe quindi rivolta alla riparazione di un sé grandioso che nei figli si rende vulnerabile. Questo aspetto emerge con chiarezza e Marsili illustra diversi casi in cui Medea evoca il tema della vergogna e dell’offesa. La vergogna è associata all’insostenibile pensiero di diventare oggetto di scherno: «Ma che i nemici ridano non è tollerabile, amiche […]. Che errore aver lasciato le case paterne, essermi fidata delle chiacchiere di un Greco che me la pagherà, se Dio mi aiuta. Non vedrà mai più vivi, per il resto dei suoi giorni, i figli che gli ho dato io e non ne avrà dalla novella sposa, perché lei, l’infame, deve morire in maniera infame per i miei veleni. Nessuno mi creda una donnetta da poco, fragile, remissiva: è tutto il contrario; sono implacabile contro i nemici, benigna con gli amici. Chi è fatto così si garantisce fama e gloria» (p. 41).

Il tema della derisione ritorna del dialogo finale con Giasone: «Non dovevi, in spregio al mio letto, riservarti per il domani un’esistenza di felicità, ridendo alle mie spalle» (cit. p. 50). Marsili nota il bisogno di risarcimento, ma si può aggiungere qui anche la trasposizione nel linguaggio di Medea di temi tradizionalmente associati all’ethos guerresco. Il coro insiste sul coraggio, la virtù per eccellenza del guerriero omerico: «dove prenderai il coraggio, l’orrenda audacia che sospinga il tuo animo che armi la tua mano per trapassare il cuore dei figli che hai partorito?»

Dalle virtù e dalle emozioni dell’animosità era tradizionalmente escluso il genere femminile. L’ethos prevedeva due aspetti, entrambi presenti nel discorso di Medea: a) un’identificazione della giustizia con il fare del bene agli amici e del male ai nemici; b) una giustificazione dell’ira come risposta sia all’ingiustizia sia all’oligoria (il venire sminuiti).

Aristotele dà un ruolo prioritario all’ira, l’emozione di Achille. Un punto fondamentale nella descrizione aristotelica di questa passione per eccellenza maschile è che essa contiene sin dalla definizione il desiderio di vendetta: «definiamo l’ira come un desiderio di aperta vendetta accompagnato da dolore per una palese offesa rivolta alla nostra persona o a qualcuno a noi legato, quando l’offesa non è meritata» (Aristotele, Retorica, II, 2, 1378a). L’ira è caratterizzata da una sensazione di piacere misto a dolore, dove il primo è causato dalla speranza e dalla prefigurazione di una possibile vendetta, mentre il secondo è dato dalla consapevolezza di essere stati immeritatamente sminuiti e quindi offesi.

Ne consegue che se il piacere di immaginare la vendetta è parte essenziale dell’ira, chi non può immaginare di potersi vendicare non ha accesso a questa emozione, non può dare sfogo al dolore connesso con l’essere sminuiti, e sviluppa tratti del carattere che manifestano questa impossibilità: diventa rancoroso, irascibile, difficile da sopportare (Etica Nicomachea, IV, 1126a20-25). Ma chi sono coloro che per eccellenza nella tradizione greca non hanno accesso all’ira? Gli schiavi e le donne, cioè coloro che per la condizione politica e sociale di impotenza e marginalità in cui sono confinati non possono aspirare alla vendetta personale se non correndo rischi altissimi.

Medea rappresenta un’eccezione eclatante. Sarebbe facile quindi vedere nella scelta euripidea una sorta di posizione femminista ante-litteram. In questo personaggio si realizza la capacità di manifestare ira, e quindi di reagire non solo a ciò che sminuisce ma anche a ciò che appare ingiusto, senza la tradizionale remissività della tradizione patriarcale. Forse però, seguendo una tradizione diversa (quella platonica, per esempio) ci si può chiedere se non sia possibile vedere nell’immagine di Medea una sorta di trasformazione paradossale del modello di giustizia omerico che, portato alle estreme conseguenze, ne mostra anche tutta la debolezza. In questa seconda lettura quello euripidea non sarebbe dunque un ampliamento della concezione della giustizia omerica anche al mondo femminile, bensì la critica radicale di tale modello, una critica che risulta più facilmente leggibile proprio nella sua estensione alla donna che sceglie di uccidere i figli per salvaguardare un’immagine invulnerabile di sé.

Nelle tre tragedie analizzate da Marsili ha un ruolo fondamentale il divino. Dalla sua lettura si evince che nel mondo di Euripide il divino è privo di ogni valore positivo perché rappresenta non tanto il piano trascendente, quanto la negazione dell’umano in ciò che esso ha di vulnerabile, e proprio perché vulnerabile, di aperto all’altro.

Aristotele (Retorica, II 1385b16) osserva che provano pietà per i dolori e i mali altrui solo coloro che immaginano di essere colpiti da simili sventure. Per questo, osserva il filosofo, risulta spesso impietoso sia chi ha sofferto troppo ed è ormai privo di speranza nel futuro, sia chi la buona fortuna ha reso arrogante e dunque immune ai rovesci del destino e alle disgrazie dei suoi vicini. Ai personaggi su cui si accentra l’attenzione di Marsili nel libro la sofferenza appare come una sorpresa immeritata, quasi come un’offesa personale più che come un aspetto naturale della vita. Gli esseri divini, in effetti, non dovrebbero soffrire, e, forse proprio per questo, laddove l’identificazione col divino è più forte, è anche meno presente la capacità di provare compassione per le sofferenze altrui.

Si pensi ad Apollo nell’Alcesti: con quale leggerezza nega che la morte riguardi personalmente ciascuno di noi! Si pensi alla divinità del sole, che scorre nelle vene di Medea, e che le impedisce di provare vero dolore e la fa muovere nell’ambito della vergogna e dell’ira ossia nel timore della derisione e nella ricerca di una vendetta che cancelli ogni offesa.

E si pensi anche all’ultimo caso, quello delle Baccanti, in cui Dioniso è indifferente a ogni aspetto della vulnerabilità umana e tratta gli altri personaggi della tragedia (dalle donne che lo seguono a Penteo) come burattini per il suo piano. Il dio e le persone toccate dal dio (in primis Agave che non riesce ad ascoltare le grida del figlio e lo uccide scambiandolo per una belva) sono fondamentalmente incapaci di pietà.

Il libro di Marsili, guidandoci attraverso le vicende delle madri assassine, offre un contributo significativo alla comprensione della sofferenza di cui sono intrise vite che forse con l’arroganza dei fortunati non sapremmo altrimenti immaginare.

Alessandra Fussi

Università di Pisa